Lo confesso. Pochi giorni fa, parlando del più e del meno, mi è sfuggito un piuttosto che con semplice valore disgiuntivo.
Giuro, non l’ho fatto apposta. Mi è proprio sfuggito, non ho saputo trattenerlo.
Come un rutto o un peto, mi è partito proprio così, all’improvviso e senza controllo.
Chi mi ascoltava sembra non essersene accorto o non ci ha dato peso. Ma il danno era ormai fatto: anche un paladino della linguistica come me ci è cascato con tutti e due i piedi.
Mi sono chiesto allora il motivo di questa irresistibile attrazione verso l’uso improprio di queste parole. Che cosa è successo? Perché il loro significato è mutato in peggio? Perché l’errore è sempre più attraente del lecito?
Cerchiamo di capirlo insieme.
Piuttosto che, cosa significa realmente?
Piuttosto che, come da grammatica italiana che ci insegnano (lo fanno ancora?) a scuola, serve a indicare una preferenza tra due opzioni alternative.
Vediamo un esempio.
Mi piace andare in montagna d’estate, piuttosto che d’inverno.
Il che significa che per me, fare trekking bardato come un reporter del National Geograpich in Antartide, con le ciaspole ai piedi e la piccozza in mano, con le giornate corte che non so se riesco a tornare all’auto quando ancora c’è luce, a farmi venire i ghiaccioli sotto il naso, proprio no. In montagna ci voglio andare d’estate, a mezze maniche e con i pantaloni leggeri. Mostratemi pure straordinarie immagini di vette innevate, non mi convincete. D’inverno andate voi, io mi leggo un libro di fronte al caminetto.
Eppure, sotto sotto, lo sento… oggi sarei tentato di intenderla anche così.
“Mi piace andare in montagna sempre, d’estate e d’inverno, non fa differenza per me.”
(Ma chi mi crederebbe, conoscendomi? Io no di certo.)
Sbagliato. Sbagliatissimo! Che mi colga la balbuzie, se ricado in tentazione.
Eppure… eppure oggi capita di ascoltare o di pronunciare, sempre più spesso, un piuttosto che con il semplice significato disgiuntivo di “o/oppure”.
Perché è sbagliato utilizzarlo col significato di o/oppure?
Perché la lingua italiana, raffinatissimo e millenario codice di comunicazione, ha già una parola (addirittura due, perfettamente sinonimi: cosa più unica che rara!) con quel significato e, per la sacrosanta legge dell’economicità, non c’è alcuna ragione per tenerne in vita altre.
In italiano, appunto, la semplice disgiunzione è indicata dalle parole o/oppure. Tralasciando qui le implicazioni della logica che distingue tra o inclusivo oppure esclusivo (ovvero che ammette, oppure no, entrambe le opzioni), il punto della questione è il seguente. Se volessi indicare che, per me, andare in montagna in estate o in inverno non fa differenza perché amo farlo sempre (prendiamoci una licenza poetica, facciamo finta che sia così…), dovrò dire:
Mi piace andare in montagna d’estate o/oppure d’inverno.
Semplice, no?
E allora, perché diamine deve venirmi la tentazione di proferire, per indicare lo stesso identico concetto: Mi piace andare in montagna d’estate, piuttosto che d’inverno?
Quando e dove è nato l’errore?
Pare sia accaduto a metà degli anni Ottanta, quando i giovani del ceto medio-alto torinese hanno cominciato a usare piuttosto che al posto di “o/oppure”, prima nel parlato e successivamente anche nello scritto.
Beh, ammettiamo che questo uso ci sembra compatibile con un certo snobismo calzante a questo sottoinsieme di parlanti, non è vero? Ce li immaginiamo a sorseggiare il loro bicerin in uno degli splendidi bar della città, con un doppiopetto nero da studenti di legge, il bavero alzato e la basetta alla Foscolo, mentre affermano che non disdegnano le avances di quella tòta lì piuttosto che di quella tòta là – fantasticando, manco a dirlo, un ménage à trois.
Idiozie a parte (non me ne vogliano i torinesi e Torino, una delle città italiane che più amo), da qui l’uso è entrato ben presto in radio e in televisione: mezzi che gli hanno permesso di diffondersi capillarmente in tutto lo stivale, amplificandone la potenza da un lato e rendendolo apparentemente legittimo dall’altro.
Occhio all’errore (finché è tale)
Checché ne dicesse Tullio de Mauro, consacrando a massimo organo legiferante in fatto di grammatica e sintassi il Signor Uso, è meglio se continuiamo a limitare il nostro piuttosto che al solo significato avversativo di “anziché”.
Se pure non fossimo tra gli accademici della Crusca o tra i puristi della nostra lingua, è bene tenere a mente che sono ancora numerose le persone che ne avvertono l’uso col significato di “o/oppure” come errore, se va bene; come segnale di poca scolarizzazione, se va peggio; o che comunque lo recepiscono in modo fastidioso. Per questo, chi lo impiega in modo errato rischierà facilmente di essere etichettato come “ignorante” – etimologicamente parlando. Riuscire a controllarne l’uso nelle proprie parole, nei propri testi, significa presentarsi in modo più accurato, attento, sorvegliato: non può che giovarci in molte situazioni, quali ad esempio un colloquio di lavoro o un discorso in pubblico.
Che cosa accadrà in futuro nessuno può dirlo con esattezza.
Anche se, date le premesse, consapevoli dei meccanismi che governano una lingua, un’ipotesi possiamo farla: ancora una volta il Signor Uso detterà legge e non resterà che mettersi l’anima in pace ‘piuttosto che’ rassegnarsi anche a questa novità.
D’accordo su tutta la linea; grazie per averlo scritto. Spero che vorrai dedicare la tua attenzione anche all’indegno “c’entrare”. Forse sarebbe utile anche spiegare l’etimologia dell’espressione “piuttosto”, che viene da “più tosto”, e in Toscana “tosto” è anche “presto”. Quindi “piuttosto che” è “più presto di, più facilmente che”. Credo che i torinesi da te ipotizzati, non avvezzi alla parola “piuttosto”, usandola per darsi un tono abbiano creduto che “piuttosto che” fosse analogo all’espressione “o piuttosto”. Che ne dici? Grazie ancora.
Ottime osservazioni, Gaietta! L’ipotesi dell’uso “snobistico” di piuttosto che all’origine del nuovo significato disgiuntivo, focalizzato nell’area torinese, è solo una delle ipotesi tirate in ballo dai linguisti. Quello che è certo, è la rapida diffusione avvenuta in tutta Italia attraverso i media; il resto è, appunto, ipotesi. L’etimologia in questo caso non sembra spiegare l’errore; anzi l’errore si caratterizza proprio per una maggiore distanza dall’etimo, per una perdita di consapevolezza delle origini di questa espressione, che giustamente individui nel toscano “tosto” col significato di “presto”. In alternativa potremmo pensare a un semplice (e banalissimo) caso di banalizzazione, come ce ne sono stati tanti nell’evoluzione contemporanea della nostra lingua. Riguardo “c’entrare” sfondi una porta aperta: sarebbe utile fare una rassegna degli “orrori” linguistici, avremmo una lunga lista di parole da “salvare”! 😉