La notizia non ha colto di sorpresa i tanti appassionati del celeberrimo rosso bolgherese, che nel Bel Paese è andato via via conquistando una popolarità sempre più vasta nonostante il prezzo poco accessibile, ma il risultato del più atteso concorso enologico dell’anno non era affatto scontato, tenuto conto che si disputa l’agone contro il mondo intero e, soprattutto, contro i nostri cugini d’oltralpe.
Sassicaia, storia di un vino rivoluzionario
Nel “nobel del vino” di quest’anno, la Toscana vola sul tetto del mondo grazie a un’etichetta che è divenuta ben presto emblema di un peculiare modo di fare vino e di un altrettanto specifico territorio. Un territorio limitato anzi limitatissimo: stiamo parlando di un ridotto numero di filari all’interno della Tenuta San Guido di Bolgheri. L’omonima DOC Bolgheri Sassicaia, infatti, insiste soltanto su quella ridotta striscia di territorio che già nel nome nasconde l’ingrediente fondamentale del suo successo: il terrorir. Come è facile intuire, Sassicaia viene dal latino saxum ‘sasso, pietra’ a indicare una natura particolarmente grossolana – e quindi drenante – del felice substrato dirimpetto alla costa Toscana nel quale le celebri vigne gettano le radici. Ma, ovviamente, la sua fortuna non sta tutta qui.

La Francia in Toscana
La rivoluzionaria idea di creare un vino “bordolese” in terra toscana nacque nella mente del Marchese Mario Incisa della Rocchettagià negli anni Venti, quando, allora studente a Pisa, ebbe occasione di assaggiare un vino prodotto dai Duchi Salviati nella tenuta di Migliarino pisano, ottenuto da vigneti abbarbicati alla costa rocciosa delle colline di Vecchiano, al confine tra Lucca e Pisa. Si trattava di un vero e proprio esperimento per l’epoca, perché il taglio di quel vino voleva replicare il gusto, allora alla moda, tipico di un vecchio Bordeaux. Un vino, quindi, pensato già in partenza per un preciso targeti di riferimento: l’aristocrazia dell’epoca. La roccia delle colline tra Lucca e il mare sembrava il contesto capace di far esprimere a quelle uve un simile bouquet: per il Marchese, restava solo da capire quali barbatelle potevano essere trasferite da quei terreni alla sua tenuta alle porte della Maremma, che pure aveva terreni “sassosi” a sufficienza.
Mario Incisa della Rocchetta aveva già notato una forte somiglianza tra i suoi terreni e quelli delle vigne a Graves, vicino a Bordeaux: un altro motivo in più per tentare l’azzardo. Nomina sunt consequentia rerum, si dice in toponomastica, e di certo non sfuggì al Marchese la non casuale somiglianza tra i due toponimi. Il nome Graves, in francese, deriva da gravier “ghiaia, pietraia”, così come quel micro-toponimo della sua tenuta, Sassicaia, è una chiara variante di sassaia in quanto “luogo pieno di sassi”. Il legame tra un substrato così grossolano e un vino di quelle caratteristiche sembrava farsi sempre più evidente agli occhi del Marchese.
Fu così che dalla tenuta pisana dei Salviati (e non dalla Francia come talvolta si dice) Incisa della Rocchetta trasferì alcune barbatelle di Cabernet e iniziò a sperimentare. Dal 1948, prima annata, al 1967, quelle poche bottiglie furono destinate al solo uso e consumo privato, all’interno della tenuta bolgherese. Già dai primi anni di produzione, alcune casse venivano stoccate nella cantina di proprietà, a Castiglioncello: grazie a questo invecchiamento, il Marchese intuì le straordinarie potenzialità del suo vino rivoluzionario, che di anno in anno migliorava costantemente, mutando quelli che prima potevano sembrare difetti in vere e proprie virtù.
Dopo anni di studi e perfezionamenti, l’annata 1968 fu la prima a essere messa in commercio e quel vino fu accolto, da subito, come un Premier Cru Bordolese. Da quel momento in poi, si passò dai tini di legno a quelli d’acciaio e alle barrique francesi che ancora oggi contraddistinguono la vinificazione di questo grande vino, il più grande al mondo.
Giacomo Tachis, la visione di un genio
Un “mescolavino”, come amava definirsi, piemontese trapiantato in giovane età in terra toscana, per intuizione e merito degli Antinori; un umanista prima che un enologo, che ha sempre coniugato la cultura e la sensibilità all’enologia, battendosi per l’interpretazione e il rispetto del vino in quanto espressione del territorio e della genetica vegetale, contro le quali la chimica e il marketing non possono che svolgere una funzione ancillare. Questo è Giacomo Tachis.
Ha rappresentato il più importante punto di svolta per l’enologia italiana, un vero e proprio “rinascimento del vino”, soprattutto in Toscana, dove ha permesso il superamento del disciplinare del Chianti Classico dando vita a una nuova tipologia di vino in grado di competere su mercati internazionali con i temuti vini francesi. La fermentazione malolattica e l’affinamento in barrique sono due dei principali caratteri distintivi del suo imprinting enologico, concretizzatosi in quella che è la definizione per eccellenza dei più noti vini toscani oggi, i Supertuscan.
Con questo termine si intendono quei rossi prodotti in Toscana che non rispettano le regole dei disciplinari della regione, ma fanno uso di altri vitigni tra i quali il Cabernet Sauvignon gioca un ruolo primario, in aggiunta o in sostituzione del tradizionale Sangiovese, e che vengono solitamente fatti affinare in piccole botti di rovere per 12-14 mesi circa.
È in tutto e per tutto la definizione del progetto del Marchese Mario Incisa della Rocchetta, la concretizzazione della sua idea rivoluzionaria. E, infatti, non potrà che essere Tachis, a guidarne fin dagli esordi la vinificazione del Sassicaia, portandolo a essere il prodotto che conosciamo oggi.
Il Sassicaia è la storia di un sogno: un grande vino nato dall’intuizione di un nobile visionario, reso possibile dalla sapiente maestria di un gigante dell’enologia italiana.

Il vino, per Tachis, è prima di tutto emozione e tali sono le etichette che ha curato durante la sua lunga carriera, a partire dalle più celebri. Tignanello, Solaia e Sassicaia, Terre Brune e Turriga: pure emozioni, oggetto di desiderio anche e soprattutto per chi può permetterseli solo raramente.
Graziana Grassini, orgoglio rosa del vino italiano
Correva l’anno 1990, quando una giovane enotecnica appena diplomata, allora alla guida della cantina del Castello del Terriccio, conquista con un vino bianco il grande maestro dei rossi italiani.
Da allora, Graziana Grassini diverrà l’inseparabile amica e collaboratrice di Tachis, nonché sua allieva e discepola nella creazione del Sassicaia. Per espressa volontà del Marchese, infatti, è lei a portare avanti ancora oggi l’idea originaria di Mario Incisa della Rocchetta e il progetto del celebre enologo.

La lezione e il messaggio del Maestro vivono oggi grazie all’appassionato lavoro di Graziana Grassini, che dalle lezioni di Tachis ha appreso non solo nozioni di chimica, ma anche il modo di concepire e vivere il vino. Gli anni nei quali Graziana ha potuto avvalersi della guida di Tachis, sono stati una vera e propria “scuola di sensibilità”: oltre al vino, Tachis amava la musica, la storia, la poesia, era un cultore dei classici e collezionava libri antichi. Solo un animo nobile ed estremamente raffinato poteva concepire un vino in questi termini, allora davvero rivoluzionari:
Il Sassicaia è l’espressione di un’uva e di un territorio ed è uno dei pochi vini ad avere un’impronta enologica indipendente da chi lo fa. È come custodire un grande tesoro: non lo fai grande, è grande, ma va preservato da eventuali attacchi esterni. Per me è più importante il nome del vino che il mio.
Riesci a immaginare il Sassicaia senza la sua storia?
Il “rinascimento” del vino è dunque il riconoscimento dell’anima di un territorio, che si esprime grazie al sapiente lavoro di un enologo “illuminato”. Il vino diviene allora ben altro dal semplice (si fa per dire) composto chimico sul quale intervenire in cantina: il vino è il prezioso distillato di una storia, unica e irripetibile, i cui ingredienti devono essere custoditi e tramandati come un segreto da iniziati. Una storia capace di emozionare i fortunati che possono averla in bottiglia: le emozioni sono, sì, quelle di uno straordinario bouquet da “bordolese in Toscana”, ma soprattutto quelle di una lunga narrazione che, dal colpo di genio del Marchese Mario Incisa della Rocchetta sulle colline di Vecchiano, all’arrivo di Tachis nella “sassosa” tenuta bolgherese, al tocco di una straordinaria enologa, giunge oggi sino a noi. Sì, a me e a te, che con un calice di rosso possiamo salire sul tetto del mondo e, soprattutto, raccontare la nostra personalissima e inimitabile esperienza da lassù.