Tra i fastidi più diffusi che tocca subire quando capita di dare un’occhiata a un testo per controllare che sia tutto a posto, c’è senza dubbio l’abuso della d eufonica. Nemmeno dovessimo partecipare a una tenzone letteraria nella più pedante delle accademie ottocentesche: ed e ad fioccano rigogliose tra una vocale e l’altra in un selva intricata di consonanti occlusive, anche e soprattutto dove non c’è alcun bisogno.
Si capisce. Il peccato non è capitale: l’intento è quello di apparire più eruditi di quanto non si è in realtà. Ma, così facendo, si cade nell’effetto contrario ovvero nell’ipercorrettismo plebeo, nel tentativo etimologicamente snob ovvero di chi è sine nobilitate, ‘senza nobiltà’.
Diciamolo fin da subito: chi ha dimestichezza con la scrittura, usa la d eufonica lo stretto necessario, e adesso capiamo insieme perché. Ma teniamolo a mente già da ora: per la salvezza del lettore, non abusiamone!

Tutto ha il suo perché

E anche la d eufonica non è un vezzo creato da parlanti melodici o da scrittori eruditi, ma ha la sua ragion d’essere nella propria etimologia.
È infatti ciò che resta della forma originaria della congiunzione e della preposizione latine da cui derivano le corrispettive parole in italiano

et  > e

ad > a

Da qui, capiamo perché in passato ne è stato fatto un uso ben più generoso di quanto non accada oggi. Ma una lingua, per fortuna, evolve continuamente nel nome della semplificazione e dell’economicità. Ecco perché, nel Ventunesimo secolo, le regole della sintassi italiana consigliano di non abusare della d eufonica, limitandola ai casi in cui sia strettamente necessaria.

Saltiamo il fosso

Fisicamente, le consonanti rappresentano un vero e proprio affaticamento nell’esercizio fonatorio: in particolare, la d è una consonante occlusiva e, in quanto tale, è una barriera (infatti occlude) al fluire della linea melodica rappresentata dalle vocali.
Proprio così, perché non dobbiamo dimenticare che di melodia si parla. La scrittura è l’immagine di un sistema fonetico ovvero di suoni che si sviluppano nel tempo secondo un proprio andamento melodico.
La d eufonica usata correttamente è appunto eufonica, cioè serve per mantenere una eufonìa, un ‘buon suono’, quando la vicinanza di due vocali identiche nella frase creerebbe invece una cacofonìa, cioè un ‘brutto suono’.
Vado a Ancona è terribilmente cacofonico rispetto a Vado ad Ancona.
La posizione delle parole nella frase fa sì che la preposizione a e l’iniziale di Ancona si trovino a contatto, costringendo il parlante o il lettore a ‘stiracchiare’ eccessivamente lo stesso suono in uno sforzo maggiore. Prova a dirlo e ti accorgerai che la tua mascella è obbligata ad aprirsi maggiormente alla seconda a e la tua lingua a retroflettersi: ti stai sforzando più del dovuto, e il suono che emetti non permette all’ascoltatore di distinguere bene i fonemi, cioè le minime unità di suono dotate di significato. Si tratta di nient’altro che di un problema di economicità e di chiarezza: ecco che interviene la d eufonica per offrire un punto di appoggio al parlante e risparmiargli lo sforzo fonico, e permettere all’ascoltatore di individuare, chiaramente, le due diverse a.
Mantenere separate queste a in modo ben percepibile è importante: la prima indica il movimento (preposizione che introduce un complemento di moto a luogo), la seconda è parte intrinseca di un nome proprio e, come tale, è indispensabile alla sua comprensione. Se l’ascoltatore non riuscisse a percepirle entrambe, rischierebbe di non capire correttamente il significato della frase.
Come un salto in un torrente: la d eufonica è il sasso in mezzo all’acqua che ci consente di fare un comodo balzo tra le due sponde, senza rischiare di cadere nei flutti o di slogarci l’anca nel tentativo di riuscirci

Quando è corretto usarla?

Pur non trattandosi di una regola vera a propria, ovvero non essendo in errore se ci ostiniamo ad abusarne, è consigliabile usare la d eufonica quando la congiunzione e o la preposizione a precedono parole inizianti, rispettivamente, per e o a.
È davvero semplice:

x+d + x(parola)

Dove con x si intende la stessa vocale: e (congiunzione – vocale inziale) oppure a (preposizione – vocale iniziale).
Se è vero che non si tratta di una prescrizione vera e propria, è pur vero che tutti i moderni manuali di stile consigliano questo tipo di uso, memori della lezione del padre fondatore della linguistica storica italiana, Bruno Migliorini.

Ci sono eccezioni?

Sì, e per fortuna sono soltanto due, dovute alla “cristallizzazione” dell’uso.
Ad esempio e, parallelamente alla forma priva della d eufonica, Ad ora.
Nessun’altra deroga è ammessa.
O meglio. Puoi anche scegliere di torturare il lettore quanto vuoi. Ma se desideri fartelo amico, beh… hai recepito il messaggio.