E’ la Giornata Mondiale della Poesia e vago in questa grande libreria già da un po’. Passeggio su e giù tra gli scaffali e non la trovo. Eppure era qui, mi dico, ne sono certo. È la più grande libreria della mia città, una delle poche a essere sopravvissuta ad Amazon; la conosco come le mie tasche, so come dispongono i libri qui, o almeno credo.
Che diamine! Era proprio qui, ma non la vedo. Al suo posto, un poderoso schieramento di narrativa fantasy che incute un certo timore. Più accanto, titoli di esoterismo e filosofia new age; poco più in là, guide da viaggio e, più in là ancora, monografie d’arte da venti chili l’una a prezzi stracciati ma ancora salati – che, manco a dirlo, nessuno compra da una decina d’anni a questa parte.
Niente da fare, la poesia non c’è più
Restano un manipolo di titoli, nell’angolo più irraggiungibile insieme ai testi teatrali. Federico Garcia Lorca, Alda Merini, Leopardi, toh c’è pure Ungaretti. Insomma, roba così, da programma didattico e aforismi a buon mercato. La poesia greca e latina, per giunta, è assai più fornita e accessibile, tra i classici dell’antichità. Che, si sa, tra le scuole e certe mode consolidate da baci Perugina, qualcuno che si prende una copia di Catullo e di Ovidio si trova sempre. Un po’ peggio va per Orazio, col suo carpe diem che si legge ormai solo nei cataloghi dei tatuatori, ma che ci vogliamo fare? Non c’è spazio per tutti, signora mia, sull’arca della contemporaneità.
Ma di cosa dovrei stupirmi?
Perché dovrei meravigliarmi, se persino io ho smesso di leggere poesie da tempo, al punto da dimenticarmi persino dell’esistenza di questo genere letterario? Io che, se oggi sono qui, a occuparmi di web, analytics, copywriting, funnel e compagnia bella, lo devo a un poeta. Sì, colpa proprio di un poeta, se ho preso la strada che ho preso. Ma vabbè, questa è tutta un’altra storia, e ormai ci ho messo una pietra sopra.
La Giornata Mondiale della poesia
Oggi che si celebra la Giornata Mondiale della poesia, come ogni inizio di primavera dal 1999 a questa parte, viene da chiedersi in che stato sia il suo mercato. Un pessimo stato, sarei tentato di dire guardando gli scaffali delle librerie, ma la questione è più complessa di quanto sembra.
Questa giornata celebra la poesia in quanto “luogo fondante della memoria, base di tutte le altre forme di creatività letteraria ed artistica”. Parole di Giovanni Puglisi, presidente della Commissione Italiana Nazionale UNESCO, che se da un lato riempiono d’orgoglio umanisti e bibliofili, dall’altra fanno rizzare i capelli in testa a chi misura il polso di mercato, prodotti e consumatori (pardon, lettori).
Se, ormai, la poesia è confinata ad essere esclusivamente “luogo fondante della memoria” cioè fondamenta di ogni genere letterario, siamo fritti. Sono utili, le fondamenta, senza di loro i palazzi crollano; ma stanno sotto terra, le fondamenta, e se nessuno le va a dissotterrare c’è il rischio di dimenticarsi della loro esistenza – a meno di non essere ingegneri, architetti, geometri o muratori.
Il mercato della poesia oggi
A stare ai dati, ci sono delle sorprese.
Nel nostro Paese la poesia, pur attestandosi sul 5% del mercato editoriale complessivo (dati Ufficio Studi AIE aggiornati al 2015), fa registrare decisi segni positivi: nel giro di un solo anno, le vendite dei titoli di poesia italiana moderna e contemporanea sono cresciute del 13,4% (327 mila copie vendute), quella internazionale, sul mercato italiano, ha registrato un incremento dell’11,7% (203 mila copie vendute). I numeri reali sono esigui, ma la tendenza in salita fa ben sperare.
Viene da domandarsi, allora, dove si venda la poesia oggi, se le librerie le concedono sempre meno spazio sugli scaffali. Dove se la procaccia, il suo mercato di nicchia? Dove si nascondono, gli spacciatori di poesia?
Parole da vivere
Certamente, la poesia oggi vive e, se pur poco, vende grazie agli eventi che ancora le sono dedicati. Presentazioni di nuove sillogi, reading in pubblico, occasioni enogastronomiche ed esperienze più tipicamente turistiche in cui riesce ancora a infiltrarsi. Insomma, pare proprio che la poesia emerga laddove la cultura, o meglio la letteratura, si fa esperienza pubblica, spesso a corredo di altre attività.
La dimensione dell’oralità la contraddistingue ancora, contrapponendola agli altri generi letterari e, in un certo senso, allontanandola dal tipo di consumo che della poesia si è fatto nei secoli scorsi. Non più uno strumento di intimo piacere, quasi segreto, e di interpretazione solipsistica del proprio mondo interiore, quanto piuttosto un momento di condivisione, un’esperienza artistica veicolata da altri in mezzo agli altri.
#instapoets: la poesia al tempo del web
Poesia come esperienza sociale. Solo in questo modo iniziamo a spiegarci l’altrimenti inspiegabile successo che il genere sta avendo oggi in un altro mercato di nicchia. Nicchia si fa per dire, visti i numeri, ma nicchia resta dati i confini netti entro i quali si sviluppa questo peculiarissimo mercato e oltre i quali è pressoché inesistente: Instagram.
Il social nato per veicolare immagini e che, grazie a una serie di “colpi di scena” del suo attuale e celebre proprietario, è andato sempre più assolvendo alle funzioni di un canale di comunicazione tra singoli utenti o ristrette community, è diventato l’incubatore privilegiato di chi, ancora, della poesia si professa adepto.
Veniamo al sodo e stendiamo sul tavolo due numeri, andando a prendere il poeta o meglio la poetessa più celebre nel mondo digital: Rupi Kaur.
L’intrigante canadese di origini indiane – pelle ambrata, capelli scuri come la notte, grandi occhi a mandorla, silhouette e outfit da perfetta millennial occidentale – popola il suo profilo di immagini da instragrammer navigata che la ritraggono in scenari e pose da manuale, alternandole a grafiche di solo testo (pardon, poesie). Il suo primo libro pubblicato (ribadisco, primo), intitolato Milk and Honey, ha venduto la bellezza di 3,5 milioni di copie in tutto il mondo. Ripeto, e aprite bene le orecchie: 3,5 milioni di copie.
Ma Rupi Kaur rappresenta soltanto la punta di un iceberg che cresce di anno in anno. Dodici dei venti poeti che hanno venduto di più, al mondo, nel 2017 sono instagrammer: le statistiche parlano chiaro.
Edonismo di massa
Instagram sembra essere, oggi, l’unico canale di marketing capace di alimentare il mercato della poesia. Gli “instapoets” sono imprenditori di loro stessi, che hanno saputo ridare linfa a un linguaggio che altrove era dato per spacciato: le dinamiche sono esattamente le stesse che decretano il successo di un paio di scarpe, una borsa griffata, un cappello vintage, una lozione per la cura della barba o quel che più ci piace. All’interno delle immagini che spopolano nelle community di Instagram, la poesia dipende dalla fortuna degli influencer a cui si associa, al pari di un gadget o un prodotto qualunque.
Ok, cerchiamo di dirlo in modo più semplice.
Rupi Kaur, ma va bene un qualsiasi insta-poet come lei, non vende sillogi ma l’immagine edonistica di se stessa. A guardar bene come si compongono i suoi testi, vediamo un fraseggio ridotto all’osso, fortemente “ispirazionale” e che strizza l’occhio a un pubblico assai eterogeneo per non dire generico, una massiccia presenza di elementi grafici e, naturalmente, immagini fotografiche che pongono metodicamente l’autrice al centro dell’inquadratura e dell’attenzione (digital)mediatica.
Chiamare “poesia” questo “mix di prodotto” potrebbe far gridare all’eresia certi critici letterari ma, come spiega brillantemente Alessandro Baricco in The Game, nell’era dell’individualismo di massa non è più tempo di sacerdoti e dunque nemmeno di eresie. E allora d’accordo, va bene così, se questo è ciò che interpreta lo spirito dell’oggi. Qualcuno oserebbe forse mettere in discussione 3,5 milioni di copie vendute?
Quale futuro, per la poesia al tempo del web?
Siamo partiti dalla scomparsa della poesia in libreria e siamo arrivati ai post milionari di un’affasciante influencer. A limitarci alle apparenze di quegli scaffali inesistenti, davamo per morto un genere letterario che invece, per fortuna, sembra godere di ottima salute.
La poesia ha semplicemente cambiato pubblico, canale e forma. Sempre per citare Baricco – non me ne vogliano altri, ma con le sue considerazioni riesco a spiegarmi anche questo – la poesia ha mutato il proprio “design” convertendosi all’“aerodinamicità” necessaria a mettersi in circolo in questo nuovo habitat, composto allo stesso tempo da “reale” e da “digitale”.
Anche questa visione manicheistica (reale vs digitale), in fin dei conti, è inutile e trita. Per chi continua a vedere le cose in tali termini, continueranno ad andare a genio i reading e le presentazioni con aperitivo; per gli altri, quelli dello scroll compulsivo, ci sono Rupi e tutti gli igers dalle parole facili.
Davvero difficile dire che cosa accadrà alla poesia. Al
massimo potremo immaginarci un progressivo definirsi e allontanarsi delle varie
“nicchie”: estremamente diverse per linguaggio, canali e, soprattutto, bisogni
dei lettori/consumatori.
Staremo a vedere che cosa accadrà; sia mai che troveremo, prima o poi, una risposta
decisa al celebre discorso di Montale, manigoldo d’un poeta che la sapeva
lunga:
Sotto lo sfondo così cupo dell’attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. C’è una grande sterilità in tutto questo, un’immensa sfiducia nella vita. In tale paesaggio di esibizionismo isterico quale può essere il posto della più discreta delle arti? È ancora possibile la poesia?
Caro Eugenio, Eusebio o come più ti piace, vorrei chiederti
adesso, ora che una nuova forma di solitudine sembra aver generato nuove forme
di poesia, se in questo “esibizionismo isterico” due punto zero c’è ancora
posto per ciò che tu chiamavi poesia.
Lo so, lo so, se venissi adesso lassù, ai piedi della splendida chiesa di San
Miniato in Monte, probabilmente ti sentirei tribolare sotto la pesante lapide.
Ma tant’è: finché ci sarà solitudine, ci sarà poesia. Muterà forma e qualità,
ma continuerà a vivere, più o meno sterile nei modi, più o meno discreta.
Conosci forse un linguaggio più efficace per dar voce al nostro malessere,
fosse anche l’insaziabile e umano bisogno di affermare continuamente se stesso
al cospetto degli altri?