Caro Vincenzo,
ti scrivo queste righe per dare la mia risposta alla tua domanda difficile.
E lo faccio da qui perché (magari) qualcuno che la sa più lunga di me, di noi, potrebbe finire tra queste parole e darti la risposta giusta, quella che farà finalmente ingranare la marcia lunga ai tanti progetti della Bottega.
Come facciamo a rompere il quadro di riferimento abituale, a uscire dalla norma e a rendere più riconoscibili i nostri valori, il messaggio, la nostra visione di impresa? Detto in altre parole, come facciamo a comunicare e condividere di più e meglio la bottega e il suo rapporto con il territorio, la creatività, la bellezza, l’innovazione, il lavoro ben fatto, il mercato?
Seppure resti e resterò per sempre un umanista incallito, il management ha cambiato il mio modo di vedere le cose e mi ha insegnato soprattutto una cosa. Per capire se un progetto ha valore e quindi, anche, per comunicarlo meglio, dobbiamo sapere con precisione quale problema risolve. Ogni progetto di business che si rispetti comincia, appunto, dal problem statement.
A essere fiscali dovremmo fare il percorso inverso, individuare cioè un problema di un gruppo specifico di persone, e su questo costruire una risposta da tradurre in servizi e prodotti. Nel caso tuo e di Jepis le risposte già ci sono, e funzionano. E allora mi sono chiesto quali siano le necessità umane che il #lavorobefatto, la Bottega e tutti i progetti che ruotano attorno a questo vostro luogo speciale possono risolvere in modo efficace.
A dirtela tutta, la risposta ha iniziato a prendere forma nella mia mente nel momento esatto in cui avete battezzato Scritte. È lì che ho capito finalmente qual è il potentissimo centro di gravità del vostro lavoro da “artigiani di senso”.
Ecco perché adesso provo a spiegarti quello che ho visto, inquadrando i problemi e quindi i bisogni delle persone che grazie alle vostre idee ottengono una soluzione. Perché potrebbe aiutarti a trovare la risposta alla tua domanda.
La prendo un po’ alla larga ma non troppo, abbi fiducia.
Il primo più grande bisogno: darsi un significato
Parto dal più grande bisogno umano, quello più irresistibile e quindi più potente di tutti. E se un marketer ti parla del più grande bisogno umano… capisci a me.
Non occorre scomodare Ruth Benedict e i suoi patterns of culture per ricordare, a uno come te, che la piramide di Maslow è una trovata buona per manager privi di fantasia e che l’essere umano, a qualsiasi azione dia forma e in qualunque latitudine o momento storico si trovi, è spinto da un unico e incoercibile bisogno.
Quello di dare senso alla realtà che lo circonda e alla vita stessa.
Nel deserto di senso che è la quotidianità l’uomo ha sete di “modelli culturali” più dell’acqua, più del cibo, più del sesso e della stessa aria che respira. Cioè di rappresentazioni mentali in grado di orientarlo nella ricerca di risposte atte a soddisfare questo suo disperato bisogno di significato.
Non credere a chi ti dirà che, prima di tutto, deve soddisfare le necessità “rettili”, che non ti ascolta se prima non si riempie lo stomaco e non ha un tetto sopra la testa. Sì, ha bisogno anche di questo ma prima deve soddisfare una necessità ben più urgente: l’uomo ha sete di significato, ed è disposto a qualsiasi cosa pur di ottenerlo.
E adesso dimmi: non è forse questa la mission di Jepis Bottega e di tutto ciò che lì viene forgiato? Creare patterns of culture per luoghi, persone e imprese; modelli culturali intesi come fitta trama di simboli che vanno a ricomporre il significato, allo stesso tempo sociale e psicologico, di chi si rivolge a voi. Significato simbolico che, tornando al business, si traduce in identità e valore e quindi, in ultima istanza, anche in spinta all’acquisto, in revenue.
Il secondo dei bisogni più grandi: esserci
E ora passo a un altro grande grandissimo bisogno umano, secondo soltanto al primo. Un bisogno al quale tu e Jepis state girando intorno come bracchi sempre più vicini alla preda.
Quello di esserci.
E stavolta tocca scomodare Ernesto De Martino con il suo mondo magico e, soprattutto, il concetto di “presenza”. Più che di morire di fame o di sete, o ucciso dal peggior nemico, l’essere umano ha una paura ben più grande, un vero terrore. Non-esserci, scomparire dalla storia e dalla vita, annientarsi nel nulla cosmico.
Per contro, esserci significa vivere da protagonisti, percepire sé stessi e il mondo, sentirselo addosso. Esserci vuol dire sentire il cosmo e dialogare con tutte le sue parti, muoverne le leve essendo noi stessi parte di quel tutto.
Adesso pensa al #lavorobenfatto e dimmi: che cos’altro può darti di più grande la sana e giusta ritualità di un lavoro fatto bene, se non la certezza dell’esserci?
Noi siamo nella compiutezza di ciò che facciamo, nell’alfa e l’omega che racchiudiamo nel nostro operato quotidiano, fosse pure il più semplice e piccolo – sebbene nessun lavoro sia mai semplice e piccolo.
E bada bene che questa cosa ha del miracoloso, soprattutto oggi.
Oggi che siamo sempre più soli e svuotati di senso. Atomizzati nell’illusione di una comunicazione globale e ininterrotta. Risucchiati dal nero brillante di quelle voragini che chiamiamo smartphone. Persi in occupazioni che ci logorano di ora in ora, per una miseria patinata che ci dia l’illusione dell’unicità.
E poi pandemia, guerra, crisi economica e chi più ne ha più ne metta. Esserci davvero, caro Vincenzo, è oggi un’impresa titanica, che ci viene a mancare la terra sotto ai piedi ogni giorno un poco di più. E che cosa meglio di un lavoro ben fatto, sano dignitoso e compiuto, per restituirci la nostra presenza?
Torniamo al business.
Se i vari Head delle risorse umane scoprissero e capissero lo straordinario potere del #lavorobenfatto, se comprendessero in quale potente cemento potrebbero tradurlo, all’interno delle proprie imprese, per rafforzare i team ed esprimere il loro miglior potenziale… beh, tu passeresti le giornate a fare formazione nelle aziende, non avresti tempo di pensare ad altro.
Perché ognuno tornerebbe ad esserci grazie al proprio lavoro, instaurando un fortissimo legame identitario con l’impresa nella quale ritrova e realizza, finalmente, sé stesso.
Il terzo dei bisogni più grandi: mettersi in cammino
E ora veniamo al terzo grande bisogno umano, legato profondamente al precedente.
Non c’è bisogno che te lo dica. Gabriel Marcel e il suo Homo Viator ci hanno spiegato come “esistere significa essere in cammino”. Il viaggio è una condizione strutturale dell’esistenza umana, che definisce l’identità sia personale sia comunitaria.
L’efficacia dello stesso “viaggio dell’eroe” tanto celebrato dal marketing nasce da questo assunto. L’uomo è un insaziabile viandante, mosso da un’irrefrenabile necessità di ricerca, che plasma continuamente la propria mutevole identità attraverso il sedimentarsi delle esperienze raccolte lungo il cammino; quelle che chiamiamo storie, intese come esperienze non soltanto vissute ma anche comprese, interpretate, memorizzate e infine narrate.
Cammino reale o metaforico non importa: dai all’uomo la sensazione di essere in cammino, disegna una meta nella sua mente e lui ti seguirà, ovunque e in qualunque momento.
Cammino definito, anche e soprattutto, in relazione al luogo dal quale si proviene. Ciò che chiamiamo “casa”, che il nostro legame con essa sia positivo o negativo, rappresenta sempre il nucleo primordiale del nostro significato di esseri in cammino. Noi siamo il luogo dal quale comincia il nostro viaggio; del resto – lo so, è banale ma è anche utile ricordarlo – che ne sarebbe di Ulisse senza Itaca?
E arrivo al punto.
Marc Augé, con i suoi celebri Non-Luoghi, ci ha insegnato che un luogo, affinché possa considerarsi tale, deve necessariamente essere:
- Identitario: deve cioè plasmare, costruire l’identità di chi lo abita o lo ha abitato;
- Relazionale: deve creare le condizioni per lo sviluppo delle relazioni tra gli esseri umani, definendone l’identità sociale;
- Storico: deve formare e mantenere la consapevolezza delle “radici”.
E non è esattamente a questo bisogno, che risponde Scritte?
Ridare un’identità all’homo viator di oggi.
Un’identità che, nascendo dalle proprie radici e dalle storie passate, si proietta nel cammino del futuro arricchendosi delle relazioni con nuovi luoghi e nuove persone.
La risposta difficile
Beh, mi dirai, che c’entra tutto questo con la domanda difficile?
C’entra, c’entra eccome.
La risposta è nella somma delle soluzioni a questi tre bisogni, o meglio: nella modellizzazione delle soluzioni che tu, Jepis e la Bottega fornite a questi bisogni strutturali, ontologici dell’essere umano.
- Come modellizzo i patterns of culture overo come individuo, costruisco e comunico la trama di simboli e significati che danno valore a un progetto?
- Come modellizzo i processi semantici che attribuiscono valore e senso a un’occupazione professionale o a un’azienda? Come trasferisco questi valori alle persone coinvolte? Come, passami il termine, “sacralizzo” i rituali che quel lavoro comporta in chi lo esegue ogni giorno?
- Come modellizzo il significato di un luogo e lo trasformo in valore per chi questo luogo lo vive o desidera viverlo, non importa se per tutta la vita o anche solo per un weekend?
Bene, e adesso rimbocchiamoci le maniche, che ci sono dei canvas da scrivere e reinventare!